18 Giugno 2013
Quarta Novella
All'inizio del 2008 una
notizia scosse la comunita' degli appassionati, ed ebbe anche notevole risonanza
presso il grande pubblico grazie all'attenzione e direi all'enfasi che le prestarono i
media: la morte, a soli 64 anni, di Robert Fischer. Era il campione piu' geniale e
controverso del Novecento e forse di tutti i secoli, che pure campioni strambi ne
hanno visto. Al tempo della sua grande impresa (nell'estate del 1972 egli batte' il
sovietico Spassky in quello che allora fu definito il match del secolo) confesso che,
pur ammirando Fischer come giocatore non lo stimavo affatto come uomo. Mi dispiacque
molto, anzi, che un gentiluomo come il russo dovesse piegarsi al genio si' ma anche
alle sregolatezze, le bizze, i rilanci, gli (apparenti) vaneggiamenti che quasi ogni
giorno l'americano sembrava escogitare, mettendo in atto una vera strategia della
tensione, alla fine risultata pagante. E quando tre anni dopo egli, grazie alle sue
intemperanze, fu squalificato ed il titolo fu assegnato, senza giocare, all'astro
nascente Karpov, io mi rallegrai, anche se ammetto fu un pensiero poco sportivo,
della decisione della Federazione internazionale. Partecipai ancora alla generale
esecrazione quando, saltuariamente, le vicende, giudiziarie purtroppo, non
agonistiche, di Fischer tornarono alla ribalta. Eppure... eppure, dopo tanti anni
cominciai a rivedere il mio atteggiamento verso quest'uomo, rivelatosi un grande
perdente nonostante i suoi folgoranti successi. Non tutto il quadro era cosi'
convincente, non tutto puo' sempre nettamente dividersi in torto e ragione, bianco e
nero. Ogni uomo ha diritto a spiegarsi e, magari sul limitare estremo della vita,
tracciare un bilancio, tentare di chiarire i suoi piu' contraddittori comportamenti
pur senza accampare comode scuse. Immaginai allora di ricevere
"UNA LETTERA DA REYKJAVIK"
Robert James, oppure no, chiamatemi pure
soltanto Bobby, come hanno sempre fatto tutti. Un po' di anni fa, non ricordo quanti
precisamente, avendo poco o nulla in tasca e nessun particolare interesse a restare a
casa, pensai di mettermi in viaggio per vedere la parte incognita del mondo. La mia
sola arma, il mio solo bagaglio, era il gioco degli scacchi, un'arma davvero omicida -
e suicida - se male usata.
Avevo imparato a giocare nel 1949 (o era il '50?)
quando mia sorella Joan trovo', in quella scatola di rozzi soldatini di legno, un
foglietto di regole che subito cercammo a modo nostro di decifrare ed applicammo in
lunghe, interminabili partite. Mia madre, restata sola dopo l'abbandono di mio padre,
a quel tempo lavorava come una dannata, in casa e come infermiera, eppure favori'
molto la mia passione per il nuovo gioco, cercando in tutti i modi di darmi i giusti
stimoli. Ma non ce n'era davvero bisogno...
A otto anni cominciai a frequentare
il Brooklin Chess Club; devo moltissimo al suo presidente di allora, Carmine Nigro:
mediocre come giocatore, ma grande scopritore di talenti. Io volevo sempre migliorare!
Mentre i miei coetanei si tuffavano nei fumetti io mi abbonavo a tutte le riviste
americane e russe - di scacchi, s'intende - che trovavo, perche' qualcuno al Club
malignava gia' sui miei difetti, sulle mie scarse conoscenze teoriche, sulle mie
vittorie folgoranti ma costruite su basi poco solide, su dubbi sacrifici. Come quella
volta con David Byrne, nel '56, al Manhattan Chess Club (sacrificio di Donna alla
17.ma e matto forzato alla 41.ma mossa). O come, sei anni dopo, contro suo fratello
Robert al Campionato U.S.A. che vinsi con 11 punti su 11 (sacrificio di Cavallo alla
15.ma ed il Bianco abbandona dopo sei mosse). Due difese Grunfeld, due stilettate
precise, due vittorie pesanti contro critici ed avversari...Io ho sempre cercato di
essere sincero e preciso nelle mie analisi, speravo che esse potessero offrire una
piu' grande comprensione degli scacchi e percio' un miglioramento del gioco, ma gli
altri purtroppo non sono stati quasi mai onesti e sinceri con me...
Nel frattempo
comunque nel '58, a soli sedici anni, avevo ottenuto il tanto sospirato titolo di
Grande Maestro Internazionale al torneo di Portoroz, in quella Jugoslavia che sempre
mi accolse bene e dove avevo buoni amici. Seguirono poi i successi di Mar del Plata,
degli otto Campionati U.S.A., di Bled, di Stoccolma, di Santa Monica, di Montecarlo,
delle sette Olimpiadi (Varna, Tel Aviv, L'Avana, Siegen, Zagabria, Buenos Aires, Palma
di Maiorca): il mondo lo giravo davvero, ma vedevo sempre la stessa stanza
d'albergo.
A Curacao, nel '62, al Torneo dei Candidati, patii la piu' grande
delusione e finii solo quarto, schiacciato dal gioco di squadra dei GMI sovietici:
essi riuscirono a 'promuovere' Petrosjan, che vinse il torneo e l'anno dopo tolse il
titolo mondiale a Botvinnik. Giurai a me stesso di non partecipare piu' a un torneo
regolato da norme truffa. Dovetti aspettare nove anni: ma alfine arrivo' il mio grande
momento: la F.I.D.E. aveva capito finalmente e, puntando su di me, decise per un
torneo ad eliminazione diretta, come volevo io. A maggio del '71 incontrai a Vancouver
Mark Tajmanov: 6 - 0 e via, il poveretto rimase cosi' male che ne ebbi quasi
compassione, dato che sapevo che al suo ritorno in U.R.S.S. avrebbe subito non pochi
guai. Piu' tardi chiese, per canali ufficiosi, una rivincita: ma potete concedere la
rivincita ad uno che si e' fatto battere sei a zero? Siamo seri... Due mesi dopo, a
Denver, tocco' a quel pallone gonfiato di Bent Larsen, il vichingo che si vantava di
essere il miglior giocatore d'Occidente: 6 - 0 anche a lui, con tanto di ricovero
finale in clinica ' per motivi di salute'! E infine a Buenos Aires, dove fu solo un
poco piu' dura con Tigran Petrosjan, 6,5 - 2,5 in nove partite. Mi venne in mente che
gli avversari dovevo sceglierli io, non la F.I.D.E., forse mi sarei divertito di piu';
il fatto e' che quei Maestri giocavano come impiegati di banca, non ci mettevano il
cuore!
Arrivo' infine il '72 e nell'estate partii per Reykjavi'k per il confronto
finale con Spassky, il Campione del Mondo in carica. Io ero praticamente solo, perche'
solo il mio amico padre Lombardy aveva accettato di farmi da secondo, mentre i
sovietici, beh! loro avevano una squadra di decine di persone, allenatori, psicologi,
dirigenti di partito, cuochi, tutti devotamente impegnati a far vincere il mio
avversario. Sapete com'e' andata, vinsi in 21 partite con quattro punti di vantaggio,
ed in generale non fu un gran bel giocare. Hanno poi scritto fiumi d'inchiostro e di
sciocchezze su questo 'match del secolo'. "Scontro di titani, dietro il quale e'
impossibile non vedere le due superpotenze che si affrontano.", "Grande duello
culturale nella coesistenza pacifica.", "Il genio solitario del self-made man contro
il simpatico rappresentante della gigantesca macchina sportiva sovietica.", "Davide
contro Golia", e via di seguito. Io faticai di piu' contro Chester Fox, quel sordido
affarista che aveva comprato in anticipo tutti i diritti audiovisivi dell'evento.
Ebbene a me non stava bene, rifiutai ogni ripresa non autorizzata. Scrissero dei miei
'capricci da primadonna' delle mie 'bizze infantili'. Certo, volevo giocare senza
essere disturbato, e con cio'? Volevo tavoli antiriflesso, poltrone ergonomiche,
ingaggi elevati e premi ancora piu' alti, e allora? Tutti gli scacchisti
professionisti - dopo... - hanno beneficiato dei miei 'capricci'! Qualcuno ha detto: -
Quando fai una mossa poco chiara, aspetta la fine della partita: se vinci diranno che
e' stato un brillante sacrificio, se perdi hai fatto uno svarione.- Io ho
vinto...

Hanno anche insinuato che avrei usato il laser, la chimica, l'ipnosi per condizionare i miei
avversari e piegarli al mio gioco, ma tutti gli scacchisti onesti possono riconoscere
che, in un incontro tra giocatori dello stesso livello, l'esito dipende per il 70%
dalla psicologia, e solo per il resto dalla tecnica: i russi sono crollati perche'
temevano, perche' sapevano di dover perdere. Boris Spassky comunque fu corretto, si
dimostro' il migliore dei miei avversari. Per due volte rifiuto' il 'consiglio' dei
suoi accompagnatori di abbandonare il match per protesta: lui non ha voluto sminuire
la mia meritata vittoria, ed anche per questo pago' pesantemente, al suo ritorno in
patria.
Il GMI Reuben Fine, psicanalista di professione, ha scritto (io da
trent'anni ho letto molto, sapete? Non sono piu' quel 'Bobby l'ignorante' che qualcuno
amava descrivere): "Appena diventato campione Capablanca perse interesse per gli
scacchi: non e' probabile che questo capiti a Bobby..." Ma cosa poteva saperne davvero
lui? Lui e gli altri strizzacervelli sono convinti che la mente umana sia una macchina
dal funzionamento tutto sommato prevedibile. Di qui le loro teorie, le sublimazioni, i
tipi e via dicendo...Io sarei stato il 'campione-eroe', mentre Boris doveva essere
(eh, gia'!) l'anti-eroe'. La verita' e' che nessuno puo' capire quel che succede ad un
uomo che raggiunge una me'ta, una vetta, l'unica, della sua vita. Potra' fare di piu'?
Potra' superarsi? Potra' guadagnare piu' soldi, questo si': ma io non ho voluto
nemmeno prestare il mio nome ad una marca di latte (volevano darmi un milione di
dollari); non ho mai riscosso un dollaro sulle royalties degli 'orologi Fischer' a
incremento di tempo, venduti a centinaia di migliaia dopo il '92...
Ecco, nel
'92, diciassette anni dopo la rinuncia alla difesa del titolo (buon per Karpov, no?) e
dopo molto girovagare avevo davvero bisogno di soldi. Ma non li ho presi per far
pubblicita' o per quieto vivere. Li ho presi per onorare un impegno che avevo asunto
con i miei amici jugoslavi, ho accettato di dare la rivincita a Boris a Sveti Stefan,
in Serbia. Tanti hanno ironizzato su questa ripetizione "grottesca" tra "due
sopravvissuti" sotto "l'occhio di uno spietato dittatore" ormai "in caduta libera di
consensi", su questo "Match della Pace". Che importa? Io ho accettato, io ho giocato
alle mie condizioni, Spassky e' stato d'accordo, io ho vinto e ci siamo divisi la
borsa. Ho anche sputato in pubblico sulla lettera del Dipartimento del Tesoro degli
Stati Uniti, che voleva vietarmi quell'incontro "per violazione dell'embargo
commerciale verso la Jugoslavia". Si', quella e' stata la mia risposta, l'ho fatto e
lo rifarei, anche se l'ho pagata cara, come ho sempre pagato tutto, nelle mia vita.
Dopo quell'affronto ho dovuto fuggire, mi sono nascosto, ho dovuto letteralmente
sparire. L'Asia orientale e' grande, per quindici anni ce l'ho fatta. Poi, in
Giappone, quel guaio col passaporto, la prigione, la richiesta di estradizione,
l'angoscia e infine il rifugio ancora in Islanda, quest'isola di ghiacci e di geysers,
di scacchisti e di silenzio.
Ora non sono piu' il "cow-boy solitario, piu' veloce
della sua ombra" come mi descrivevano i giornali popolari, mi sono appesantito, sono
malato, vecchio. Mi sento un po' un naufrago, non credo di poter superare la 64.ma
casella della mia vita. Quando io affermai - allora - che per me gli scacchi sono la
vita, Boris mi corresse: per lui la vita non poteva iniziare in a1 e finire in h8;
disse proprio cosi'. Bene, a me succedera', sento che la fine si avvicina... queste
crisi renali sono sempre piu' frequenti ed io non ho nessuna fiducia nella medicina
occidentale.
Ho scritto questa lettera non per cercare compianto o
giustificazioni, ma per il solito bisogno di verita'. Se mi guardo alle spalle
riconosco che sono stato secondo le volte molte persone diverse. Infatti, secondo i
commentatori, sono stato di volta in volta "un feroce anticomunista", "il vero
americano", poi "un fanatico religioso", quindi "un paranoico", "un bieco antisemita",
addirittura "un filoterrorista", infine "il prototipo dell'antiamericano". Forse tutto
cio' e' stato vero, in qualche fase di quella partita che e' stata la mia vita. Sono
andato contro questo e contro quello, ma sono rimasto sempre fedele al mio bushido,
come i giapponesi chiamano il codice d'onore del samurai.
Vi mando una delle mie
ultime foto, credo proprio che sara' l'ultima.

Ho sempre giocato la partita, sempre.
Non ho mai tradito gli scacchi.
Ricordatemi cosi'.
Addio.
Bobby Fischer
Si riporta integralmente il racconto, per gentile concessione dell'autore, dal libro

Prezzo di copertina
12,00 EUR (8,50 EUR su www.ilmiolibro.it)
Formato 12x18 - Copertina Morbida - bianco e nero -
128 pagine
Presentazione
Racconti per lettori pazienti
Un silenzioso indiano navajo, un nobile siciliano spiantato, un antillano
cardiopatico, un ragazzino di Brooklin, un oscuro cronista veronese... questi ed altri
personaggi, trascinati dalla passione scacchistica, vedranno le loro esistenze
prendere direzioni impreviste ed imprevedibili.
[Fonte: Le nove novelle de li
scacchi]
[Autore: Eugenio Castellotti]